Tradurre letteratura significa anche attraversare distanze. E ogni viaggio merita un brindisi iniziale. Italo Calvino lo sapeva: certi romanzi, come certi vini, sopportano il trasferimento, altri no. Il sapore cambia con i chilometri, si trasforma nella distanza tra il vigneto d’origine e la tavola lontana.
Quando Calvino parlava di “tradurre come vero modo di leggere”, a quale vino pensava? Rosso o bianco? E perché chiamiamo bianco ciò che bianco non è? Tommaso Landolfi vedeva in quel colore lo sfacciato pudore, ma qui non si nascondono doppi sensi. Piuttosto emerge un filo rosso che attraversa lingue e culture: il coloritus romano che significava proprio rosso, il concho de vino che descrive il sedimento rossastro sul fondo della bottiglia, fino al mare color vino di Omero, che saltò completamente il blu nella sua tavolozza poetica.
I colori nella traduzione rivelano complessità inaspettate. Il traduttore si trova intrappolato: da un lato il cervello normalizza le percezioni cromatiche secondo l’esperienza; dall’altro la lingua gioca i suoi scherzi. Chiamiamo bianco il vino giallo, nera la pelle marrone, rosso il pesce arancione. L’arancione stesso, in Italia, era considerato una sfumatura di rosso prima che arrivasse l’agrume corrispondente – da qui i “capelli rossi” che rossi non sono.
E molti colori, semplicemente, in certe lingue non esistono.
I colori hanno interrogato pensatori da millenni. Rudolf Steiner nel 1921 ricordava che dovrebbero interessare non solo il fisico, ma “lo psicologo, l’investigatore dell’anima e anzitutto l’artista”. La mappa tra vista e lingua rimane ancora parzialmente oscura, eppure antropologi, sociologi, linguisti e traduttori continuano a esplorarla. I colori basilari attraversano culture e idiomi, rivelando universali linguistici, ma anche diversità radicali.
La bibliografia sterminata non risolve però l’esitazione concreta: blu, azzurro o celeste? Sinonimi o una gerarchia di significati?
Calvino si confrontò con questo dilemma traducendo Les fleurs bleues di Queneau. Scelse “blu” invece di “azzurri” per una ragione di ritmo, di spirito queneauiano. Consultò l’autore sul significato dell’espressione francese: indicava ironicamente persone romantiche, idealiste, nostalgiche. Quel romanzo che sembrava intraducibile cominciò a provocarlo, a sfidarlo “a un duello tutto finte e colpi di sorprese”.
Di fronte a uno spettro cromatico inconsueto, il traduttore può aggiustare le sfumature, dimostrare di avere una retina sana. Il cervello, del resto, rimpasta continuamente i segnali visivi: una banana grigia ci appare tendente al giallo perché ricordiamo le banane come gialle, e normalizziamo verso l’atteso.
Ma le risorse linguistiche variano drammaticamente: il maori nomina tremila colori, lo swahili tre (nero, rosso, bianco), il tarahumara e il rapanui non distinguono lessicalmente verde e azzurro.
Ortega y Gasset suggeriva che scrivere bene significhi “fare piccole erosioni alla grammatica, all’uso prescritto, alle regole vigenti”. Il traduttore potrebbe dunque evitare la normalizzazione, preservare scelte cromatiche stranianti.
Il mare color vino di Omero non apparirebbe più bizzarro: potrebbe riferirsi a una tempesta, al riflesso di un’alba intensa, o essere semplicemente una licenza poetica. Nel 1866, quando Gladstone ipotizzò il daltonismo omerico, il classicista Blackie rispose minaccioso: se qualcuno pensa che l’aedo difettasse nell’organo del colore usando questa espressione vaga, “gli replicherei dicendo che il critico difetta nell’organo della poesia”.
Forse è qui il punto: tradurre i colori significa scegliere tra fedeltà alla retina o fedeltà alla poesia.