Tre Visioni di Libertà

Il vino racconta storie. Non solo quella della terra che lo nutre o del tempo che lo trasforma, ma storie di uomini, di scelte, di ribellioni silenziose. Tre figure, tre epoche, tre modi di concepire il vino come luogo di resistenza: l’etichetta come manifesto, l’alcol come specchio dell’anima, la produzione come atto politico.
Quando parliamo di Vini d’Artista, parliamo di bottiglia-tela, di uno spazio dove l’arte conquista una piazza democratica. L’etichetta smette di essere semplice informazione e diventa testimonianza tangibile, sintesi dell’intento del vignaiolo. È qui, in questi pochi centimetri di carta, che nascono mondi: ricordi sedimentati, visioni politiche, afflati letterari. L’etichetta stuzzica la fantasia prima ancora che il palato abbia assaggiato il primo sorso. Eppure, paradossalmente, questa ricerca di unicità attraverso l’arte rimane spesso prigioniera di una logica mercantile: la cantina “guadagna in termini di pregio e di creatività”. L’etichetta-manifesto diventa anche etichetta-prezzo.

Charles Bukowski conosceva bene questo paradosso. Non era clinicamente alcolista, ma piuttosto un uomo che viveva dentro l’alcol come si vive dentro una casa. Composto da “un terzo di genio, un terzo di alcool e un terzo di un carattere irriverente”, Bukowski trasformava il bere in atto creativo. Quando scriveva “Bere ha a che fare con la sfera emotiva. A intermittenza ti porta fuori dalla routine quotidiana… È come ammazzarsi e poi rinascere”, non descriveva l’ebbrezza ma la necessità di rottura, il bisogno di infrangere la monotonia per ritrovare il sé autentico. Il vino e la birra che beveva — ciò che poteva permettersi con i pochi soldi — non erano lusso, ma respirazione. La sua bottiglia era una bottiglia vuotata dalla necessità, non dalla ricchezza. E tuttavia, quella stessa necessità generava bellezza letteraria. Il paradosso è duplice: l’alcol lo distruggeva e lo salvava contemporaneamente. “Se succede qualcosa di brutto bevi per dimenticare, se succede qualcosa di bello bevi per festeggiare e se non succede niente bevi per far succedere qualcosa.” Non c’è scampo nel ciclo, solo la vertigine consapevole della propria prigione.

È qui che vorrei introdurre Luigi Veronelli, il “Gran Anarchico del vino italiano”, figura radicalmente diversa eppure affine nelle sue ossessioni. Dove Bukowski beveva per fuggire, Veronelli beveva per resistere. La sua anarchia non era intossicazione, ma lucidità combattente: “il peggior vino contadino è migliore del miglior vino d’industria”. Con questa affermazione semplice e radicale, Veronelli intendeva il vino come atto di giustizia sociale. Il suo territorio non era il bar, ma il campo, non l’oblio, ma la consapevolezza. Opponendosi alle multinazionali agricole e alla grande distribuzione, difendeva “la biodiversità e la tracciabilità completa” come strumenti di libertà individuale garantita dalla libertà degli altri. La sua bottiglia raccontava una storia politica: resistenza agli ordini centralizzati, affermazione del piccolo produttore, rifiuto della standardizzazione.

Ecco il primo intreccio: tutti e tre vedono nella bottiglia uno spazio di battaglia. Per l’artista, è battaglia estetica contro l’indifferenza del mercato. Per Bukowski, è battaglia interiore contro la quotidianità vuota. Per Veronelli, è battaglia collettiva contro l’omologazione industriale. Tre fronti che convergono nel riconoscere che niente è neutrale, nemmeno una bottiglia di vino.
Ma le divergenze sono altrettanto significative. L’etichetta d’artista rischia di diventare oggetto di consumo sofisticato, seduzione estetica al servizio del “pregio”. Ricerca di unicità che paradossalmente riproduce logiche di mercato: più artista è celebre, più preziosa la bottiglia. Bukowski, dal canto suo, viveva la dissoluzione come involontaria: l’alcol lo possedeva più che non lo possedesse lui. La sua libertà era la libertà del prigioniero consapevole. Veronelli, invece, teorizzava una libertà costruttiva, una liberazione verso qualcosa (autenticità, giustizia) e non solo da qualcosa.
Eppure — e qui risiede il paradosso più profondo — questi tre mondi condividono un’intuizione cruciale: la bottiglia è messaggio prima ancora di essere bevanda. L’etichetta d’artista grida “guarda cosa sono”; Bukowski sussurra “guarda cosa divento”; Veronelli proclama “guarda da dove vengo”. Tutti e tre rifiutano l’invisibilità, la trasparenza neutrale. La bottiglia diventa specchio, confessionale, manifesto.
C’è inoltre una comune tensione tra forma e contenuto. L’etichetta d’artista rischia di iper-valorizzare la forma, relegando il vino a pretesto. Bukowski visse il contenuto — l’alcol — come forma della sua vita, dissolvendone i confini. Veronelli cercava di fonderli in una unica visione coerente: forma autentica di un contenuto autentico.
E infine, il filo invisibile che li unisce: la consapevolezza della finitudine. L’etichetta è memoria effimera sulla carta. La vita di Bukowski era conteggio alla rovescia annotato a penna d’ubriaco. L’anarchia di Veronelli era lotta sapendo che i poteri non cederanno facilmente. Tutti sanno, in fondo, che la bottiglia è temporale, che il vino invecchia, che l’arte appassisce, che la rivolta viene cooptata. Eppure continuano. Perché? Forse perché, come dice Bukowski, “se non succede niente bevi per far succedere qualcosa”. La bottiglia è l’atto di far accadere, indipendentemente dall’esito.
Non è possibile dire tutto di questi tre mondi, né comprenderli appieno. Si trasformano continuamente, specchi che riflettono l’osservatore. Ma è forse questo il loro insegnamento più profondo: che la vera libertà — artistica, personale, politica — risiede nel rifiuto di stare fermi, nella volontà di occupare spazi apparentemente minori (un’etichetta, un bicchiere, un disciplinare agricolo) e trasformarli in campi di battaglia invisibili, dove le parole diventano immagini, le immagini concetti, e i concetti — finalmente —emozioni, resistenza, significato.​​​​​​​​​​​​​​​​

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